Sul numero di gennaio 2022 di Borghi Magazine, la rivista dei borghi più belli d’Italia, ho pubblicato il racconto di una mia esperienza di qualche anno fa.

Questo il testo:
Nel 1900, qui c’erano mille abitanti, e oggi solo diciassette, ti dice subito il vecchio dalla barbetta caprina, densa e bianca come la neve, che ci saluta e ci accoglie alla sommità della via pedonale. Egidio è sorpreso dalla nostra presenza a Tremonti, e chiede chi siamo e perché ci troviamo lì, ma già intuisce che per lui è giornata, che noi visitatori improvvisati e improvvisi siamo portatori di ascolto, e quindi abbandona a terra quel pezzo di carta catramata che tiene in una mano e inizia a raccontare.
Parla con voce tonica e parole appropriate, il marsicano. Ha la schiena piegata dallo scorrere del tempo, e per questo si sorregge con un bastone dall’impugnatura a testa di cane che lui stesso ha intarsiato e laccato. Indossa una giacca a vento blu di una taglia più grande della sua, e in testa porta un berretto a punta di lana verde, probabilmente lavorato ai ferri dalla moglie (è di Catania, ci dirà; e ora non sta bene).
Sembra il personaggio di una favola, quell’omino, e di questo lui sembra consapevole, perché nella sua desiderosa spontaneità comprendi che si avvia a recitare il copione che più gli è caro, dedicato a quel paesino ‒ ai nostri occhi così intrigante, rumoroso di silenzio e di case sigillate, diffidenti come i gatti che le presidiano ‒ che è il luogo in cui lui è nato, ottantadue anni fa, quello da cui è partito (per Torino, a lavorare all’Inps), e nel quale non smette di ritornare ogni estate, prolungando la sosta sino ad autunno inoltrato.
Egidio è uno che sa, e che scrive: in passato ha anche pubblicato sulla Stampa di Torino, ci tiene a dire. Brutto vizio, quello: i preti lo avevano cacciato dal collegio, spiega, quando era ancora adolescente, proprio perché aveva l’abitudine di scrivere, e per di più, di scrivere cose di loro che non si dovevano neppure pensare.
Parla, illustra, racconta dei muri e delle strade di Tremonti, della gente che se n’è andata e della processione di agosto, un tempo lunghissima e ora ridotta a poca cosa. Poi chiama la Candida, a gran voce, per farsi dare la chiave della chiesa di Sant’Antonio di Padova, dove ci accompagna a vedere la statua in legno del Cristo disteso, e a immaginare il suono di un organo che ormai non c’è più. Quando usciamo e la Candida torna a ritirare la chiave, sorridendo dice che lei qui ci sta bene, e che non se ne andrà mai.
Egidio non trascura di informarci che ogni anno “pubblica” anche articoli di storia del paese, perché tra queste valli abruzzesi, si sappia, transitò Corradino di Svevia prima della battaglia di Tagliacozzo, o meglio della Scurcola, ricordata anche dal Sommo Poeta. E in alto, sopra le case, dominano ancora la valle i resti del castello degli Orsini, che di questi luoghi furono a lungo i signori.
Ma, riflette tutto d’un tratto, dovrebbe averne ancora una copia, di quel suo ultimo lavoro. E si precipita dunque a prenderla in cantina, proprio lì di fronte, brandendo una pesante chiave con cui si potrebbe aprire la serratura di una fortezza, e poi torna con due fotocopie ripiegate, e piuttosto malridotte per aver alloggiato in quell’ambiente, scusandosi perché ha trovato solo la pubblicazione del 2017, e non la più recente. Ringraziando per la gentile sopportazione, si scusa anche dei suoi probabili eccessi verbali, perché lo sa, e qualcuno probabilmente ogni tanto glielo ricorda, che a volte, effettivamente, un po’ esagera.
Ma non è quello che noi pensiamo: lui lo sente, e dice così solo perché vuol sentirselo dire che non esagera. Capisce, Egidio, che dalla nostra piccola comitiva può aspettarsi quello che sinceramente gli stiamo restituendo: il piacere di trovarci lì a osservare e ascoltare lo spirito del luogo, l’antico genius loci di Tremonti fatto persona, custode affabulatore e celebrante di una storia ormai declinata verso un’irrimediabile agonia.
La scena è sua, nel cono di luce che gli compete, e che lo libera da ogni indugio. È anche autoironico, il nostro uomo, e viene da sorridere quando rivela che tra le viuzze che salgono e scendono nel paesino, tutti lo chiamano Urca, ideale assonanza ai miei orecchi con un altro magico omino che avevo riesumato dai ricordi del quartiere in cui vivo, un venditore di noccioline chiamato Ultra. Evidentemente, mi viene da pensare, questi personaggi che appartengono alla dimensione del mito hanno tutti dei nomi così: brevi, secchi e con la “u” iniziale. Come Ulisse, d’altronde.
Insiste, Egidio, per offrirci un caffè nel baretto che immagino apra solo la domenica, quando nel borgo tornano i parenti in visita ai pochi abitanti rimasti. E pazienza se il più ordinario caffè, contro voglia, lo prendiamo noi, mentre lui ordina un più celebrativo bicchiere di bianco, continuando a incatenarci con le parole per farci restare ancora un po’, per non lasciarci ripartire.
Caffè e vino, in realtà, li paga poi Vito, senza che protesta alcuna si sollevi da parte di Egidio. Ma è solo un dettaglio che ci fa sorridere, perché ce ne andiamo via con un bel sentire nel cuore: lasciarci attrarre dalla cartolina che quel paesino ci mostrava dal basso, percorrendo la strada del ritorno, è stata davvero una buona idea.
Di lui, ripensandoci, mi resta la bellezza che solo certi vecchi riescono a farti percepire quando si raccontano e aprono mondi lontani. E la piacevole sensazione che mi dà l’avergli restituito l’ascolto, lo sguardo e le parole che lui, forse, stava cercando da noi, quel giorno, consacrate da un bicchiere di bianco pericolosamente riempito sino all’orlo dall’incerta mano del barista.
Lo sapevo già, e a Tremonti, nella prima giornata fredda dell’autunno 2018 ne ho avuto un’ulteriore conferma: bisogna sperare di incontrare un vecchio, nei paesi sconosciuti, e poi fermarsi a parlare. Perché insegnano, i racconti dei vecchi che odorano di antico. E se si lasciano entrare sotto la pelle, possono farci scoprire persino qualcosa di noi stessi.